Il film Lebanon, vincitore del Leone d'oro alla 66° Mostra del Cinema di Venezia, è l'opera prima di Samuel Maoz.
Nell'inserto Venerdì di Repubblica dell'altra settimana (purtroppo lo leggo a spizzico) è stata pubblicata un'intervista di Emilio Marrese al regista israeliano.
"Alle sei e un quarto del mattino, il 6 giugno 1982, il ventenne israeliano Samuel Maoz premette il grilletto e uccese per la prima volta un uomo. Ventisette anni dopo... Maoz prende gli spettatori e li chiude dentro un carrarmato in guerra per un'ora e mezza insieme con i suoi fantasmi perchè ne condividano le sensazioni, la paura persino la puzza. Con una telecamera telecomandat ha girato tutto dentro il cingolato, il mondo esterno lo si vede attraverso il mirino. Eppure non è un film claustrofobico bensì intenso, sorprendente, sconvolgente. E controverso".
Dopo aver letto questa incip non ho resistito e mi sono buttata nel leggere l'intervista.
Mi ha toccato particolarmente la risposta del regista alla domanda del perchè ha scelto di raccontare il primo giorno di guerra:
"Le chance di un soldato di morire nel primo giorno, secondo uno studio americano, sono altissime: nel secondo, statisticamente, già si dimezzano.
Il terzo scendono al 10 per cento e dopo, se muore, è di solito per un bombardamento.
Questa ricerca spiega così perchè i ricordi del primo giorno siano nitidi mentre dopo tutto si confonde, e perchè quel ragazzo ti sembra un'altra persona e non te stesso.
La guerra si basa sull'assunto che tu sarai in grado di uccidere gente, altirmenti non funziona. E non lo fai per un ideale o per un ordine ricevuto: normalmente ti rifiuteresti di ammazzare qualcuno dall'altra parte della strada solo perchè te lo dicono, a meno che tu non sia uno psicopatico. Il pericolo di morte invece lo senti in ogni cellula del tuo corpo. Sei in trance.
Io dovetti decidere in un battito di ciglia, ero l'ultimo anello della catena, il boia.
Alla fine tutta la responsabilità è sul tuo grilletto.
Io l'ho premuto e, benchè non avessi alternative, mi sento in colpa.
In questo film ho cercato di portare lo spettatore a pensare "anch'io lo avrei fatto". Non ho voluto solo che comprendesse quella situazione, ma che la vivesse".
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